Chissà come sono le meduse provenienti dal Bosforo? Pare viaggiatrici curiose, alla ricerca di mari nuovi, che percorrono seguendo correnti misteriose, così come l’ultimo disco di Andrea Pozza contaminato da nuove culture, insinuatesi silenziosamente nel suo bagaglio linguistico musicale in modo naturale. E’ nato così “A Jellyfish From The Bosphorus”, un lavoro elegante, costruito su un pianismo attento ai colori, alle sfumature, in perfetto equilibrio fra la solidità di un impianto formale di stampo europeo e l’inventiva fresca e ammaliante di un sound oltreoceano.
Come madrelingua jazz, attivo sulla scena nazionale e internazionale da circa trent’anni, hai avuto difficoltà a scegliere la scaletta di “A Jellyfish From The Bosphorus”?
La scelta è avvenuta in modo naturale, mettendo insieme alcuni miei brani originali, scritti apposta per questo progetto (tranne “Love Is The Way di qualche anno fa) e alcuni standards che da tempo mi proponevo di incidere. Ho poi arrangiato sia i miei brani che gli standards con l’intento di ottenere la tavolozza espressiva che esprime le varie sfaccettature del mio pensiero musicale odierno.
Tuttavia è così è costruito in forma di dialogo tra voi tre musicisti, non ci sono assoli personali, l’assolo passa da uno all’altro durante tutto il brano. Da dove è nata l’ispirazione?
Era da tempo che volevo incidere un brano con questo tipo di struttura, atipica per la verità, ma estremamente stimolante. Invece dei classici assoli abbiamo qui un dialogo, un botta e risposta prolungato tra i tre strumenti. L’intento è quello di usare il trio come uno strumento unico. I tre musicisti devono diventare una persona sola facendo in modo che sia l’ assolo stesso che passa da uno strumento all’ altro. Abbiamo inciso varie versioni prima di “trovare” quella giusta…
Intensa l’attività concertistica che ti ha portato questa estate a girare in lungo e in largo l’Italia: a luglio diversi concerti sold out, come al Museo d’Arte Orientale di Genova; poi l’ospitata di Steve Grossman alla Casa del Jazz Festival di Roma e quella di Enrico Rava all’Ancona Jazz Festival. Ad agosto sei volato in Inghilterra a presentare il nuovo cd. Ti riposerai in autunno o proseguirai con altre date?
A settembre, un po’ di vacanza e le ultime lezioni ed esami al Conservatorio N. Paganini e a ottobre riprendo l’attività con un’incisione in duo con Scott Hamilton e un tour di una settimana con Ferenc Nemeth (drums), Pietro Tonolo (tenor) e Lorenzo Conte (bass): suoneremo a Padova, Ancona, Verona, Albenga (rimando al mio sito www.andreapozza.it per le info precise). Poi ancora in tour con Hamilton a Dicembre in Svizzera.
Suonare brani che portano la firma di Duke Ellington e John Coltrane come “In A sentimental mood”, ad esempio, immagino carichino di una bella responsabilità… com’è andata?
Era parecchio che volevo incidere “In A Sentimental Mood”… ci sono riuscito questa volta, superando la paura del confronto con le versioni storiche di tanti grandi. Ho cercato di essere molto sincero, senza caricare la mia versione di troppe pretese, che ne avrebbero sicuramente appesantito l’esecuzione. Ho sostituito qualche accordo e composto un’introduzione sull’inciso effettuando un cambio di tonalità che non c’ è nell’ originale, per il resto il brano è un capolavoro e perché sia bello da ascoltare basta suonarlo così com’è !
Quando si suona jazz, si va sempre un po’ a pesca… questa l’hai detta tu a Cat Club su RTL 102.5 Cool. Non male come paragone, ce lo spieghi?
Il paragone mi sembra azzeccato perché il jazzista, improvvisando molto, deve ogni volta andare a pescare nel suo inconscio, prima di tutto l’ ispirazione e la voglia di “giocare” con la musica, poi tutte le idee che gli verranno durante il concerto. Così come il pescatore che deve preparare bene tutti gli strumenti, senza sapere se poi alla fine il pesce abboccherà. A volte il pesce non abbocca (sempre più raramente con l’esperienza per fortuna!) e uno deve tornare a casa insoddisfatto. Altre volte si torna a casa con la soddisfazione di aver pescato un esemplare che nemmeno ci immaginavamo.
Dopo il quintetto di “Gull’s flight”, un disco in trio, con una formazione classica per i pianisti, con Aldo Zunino al contrabbasso e Shane Forbes alla batteria. Il prossimo sarà un piano solo?
Potrebbe essere, anche se un cd in piano solo mi spaventa ben di più che incidere “In A Sentimental Mood”. In realtà non ho ancora avuto tempo di pensare al prossimo progetto. Il piano solo sicuramente è una tappa quasi obbligata per i pianisti e richiede una grande preparazione. Sicuramente lo farò, ma non so se sarà il prossimo.
Un salto indietro, nel passato: quali sensazioni conservi della sera in cui debuttasti in uno storico jazz club di Genova, a soli tredici anni?
Ricordo di aver suonato al Louisiana Jazz Club con Alessio Tofani alla batteria (ora è un importante avvocato) e Dado Moroni al basso (oltre ad essere un esimio collega è anche un bravissimo bassista). Nel repertorio c’ era un blues di Bill Evans ed un mio brano ispirato a McCoy Tyner. Ero emozionato ma devo dire che fin dall’ inizio mi è venuto naturale trovare sul palco quel briciolo di solitudine che aiuta la concentrazione.
Una curiosità: che tipo era Chet Baker? E Charlie Mariano?
Ho incontrato un paio di volte Chet Baker. La prima a Perugia per un concerto in trio (con Luciano Milanese al basso), senza batteria. Fu molto gentile con noi e ne ebbi l’ impressione di una persona di grande fascino. Dopo la fine del primo tempo si girò, ci fece i complimenti in maniera veramente amabile, poi si voltò verso la sua compagna, in platea e iniziò una lite furibonda!
La seconda volta fu al Capolinea di Milano: stavo suonando con il quartetto di Gianni Basso (Luciano Milanese al basso e Giancarlo Pillot alla batteria) e Chet era tra il pubblico perché era di passaggio a Milano. Gianni lo invitò a suonare, ma non aveva lo strumento, tornò l’indomani con la tromba e suonò molti brani con noi tra i quali But Not For Me , che cantò (wow!). Fu veramente piacevole e straordinario per tutta la sera, era di ottimo umore, tra racconti di aneddoti e battute.
Disse a Gianni che avrebbe voluto fare dei concerti in futuro come ospite del quartetto. Aveva una macchina nuova (amava le macchine sportive) e un cospicuo pacco di banconote, che ci mostrò. Sarebbe partito l’ indomani per Amsterdam, dove poi morì qualche giorno dopo.
Incontrai Charlie Mariano a Milano per un’incisione di brani di film italiani per il mercato giapponese. Fin dal primo momento trattò i musicisti della band come amici di lunga data e per me fu proprio come ritrovare un vecchio amico, il ché mi spiazzava un po’ data la sua levatura musicale, la differenza di età, di esperienza e il fatto che non ci eravamo mai visti prima, ma l’ emozione era quella. Suonammo ancora anni dopo e tutte le volte provai sempre quella sensazione di familiarità e direi comunione che andava al di là della musica.
Conservo un ricordo di Charlie come di una grande persona e di un grande musicista.
di Erica Vagliengo
Credit: Rava, Cifarelli
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